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Ilaria Salvi
Il tasso


L’arsura dei giorni scorsi si era mostrata con segni profondi nella terra dei gerani mentre le foglie dell’ortensia mal celavano una fatica vizza e cadente; a me si era insinuata dentro ed aveva scavato nei sensi: nella gola e sul palato un pizzico insistente di sete inascoltata, nei polmoni un fiato smorzato appeso al più piccolo refolo di vento, nella pancia e sul petto una smania ansiosa. Nel cuore, non so: batteva lento e sabbioso. Mi chiedevo chissà quanto sarebbe scorsa ancora, questa clessidra macilenta e se i grani del tempo avrebbero cambiato ritmo sembrandomi veloci e vivaci o sarebbero scivolati via così, stanchi, abbandonati in una canicola opprimente e interminata.
La sera ha ferito un cielo denso con tagli obliqui e fitti, ha impastato la polvere e ha dato forma a pensieri di nuvole e pioggia, fatti del dolore ambiguo della nostalgia. Apro le mani e non ci ritrovo quella carezza, guardo la soglia e non c’è più quell’abbraccio, il Bravo antracite cigola ruggine e se per miracolo riuscisse a riportarmi a quei luoghi, di certo non potrebbe riportarmi a quel tempo, a quella fantasia, a quel bisogno di bersi. Più il desiderio di quel che è stato è intenso, tanto più diventa labile quanto struggente la malinconia. E mi manchi: ma non so se sei tu a mancarmi o il ricordo che serbo di te.
O, forse, sono io che mi manco.
Si cambia: non il mondo la vita le circostanze; siamo noi a cambiare: i nostri motivi, la nostra spinta interiore, il nostro modo vedere le cose; ridere diventa più difficile, una sorta di stupido pudore inibisce il bisogno di piangere, non saprei di preciso che succede alla capacità di amare. Forse ancora si accompagna a passioni e desideri e allora davvero, credo con amarezza che non sapresti più cogliermi con un solo sguardo lo skyline dell’anima.
L’ho persa, la linea che profila il mio orizzonte e me ne accorgo ora, all’improvviso: pensando a te; pensando a me. Forse ho passato troppi anni senza pensare ed ho colmato vuoti di cielo con morgane sfocate, proiezioni di immagini che credevo mie e fosche illusioni. Ho creduto di poter salvare anche solo un millimetro di mondo e mi scopro a sperare di essere salvata; mi accorgo dei capelli che diventano bianchi, di qualche ruga più marcata e non so dire nel mentre che c’è stato: mi sono vista di colpo allo specchio dopo un sonno senza sogni lungo vent’anni e un buco di ricordi veri di me; e quello di prima che vorrei ricordare si fa frammento fioco perché non c’è nessuno che me ne parli: così sono molte le cose perse per sempre.
Tu lo sapevi già allora che tutto dura un attimo appena, il momento di uno scatto, perché già non è più e lascia il posto a quello che sarà: immaginavi di bloccare il fluire del tempo, fissare quello che non conoscevamo ancora come l’inganno che ci sfugge e nella tua scatola magica coltivavi sorrisi smorfie facce imbronciate, istantanee di emozioni e lampi di vita destinati altrimenti a svanire; così ti prendevi cura di me, dei miei capelli slegati aspri di salsedine, del mio sguardo perso nel finestrino di un treno, delle mie gambe tese nella corsa, di me addormentata chiusa a gomitolo nel chiaroscuro di una stanza dalle persiane accostate. Dopo di allora, dopo di te, non ho più fotografie. E, un po’ per volta, mi sono dimenticata.
Ho lasciato trascorrere la sera ed ho continuato a guardare dalla finestra la luna, fino al tramonto tra i tetti; poi, sarà stata questa inquietudine aguzza o il richiamo insistente dell’assiolo, ho sentito forte il bisogno di affondare nelle mie ombre e di perdermici dentro; così sono uscita nelle pieghe di una notte morbida: dalle finestre buie e aperte delle case suoni di sonni silenziosi, da una corte l’odore della passiflora, il riflesso del lampione in un ristagno di acqua, le luci dell’isola a occhieggiare al di là del buio; ho salito le scalette del vicolo, muri spessi ed archi a sostenere volte, in piccole rientranze piccioni col capo sotto l’ala, una lanterna a illuminare lo sbocco sulla via principale e, in fondo al corso, la piazza con il duomo.
Silenzio bianco, come di ovatta; solitudine densa di timide emozioni che rimbalzano su un cuore di gomma. Ho avvertito il vuoto della piazza come una vertigine e mi sono seduta sulle scale lisce del duomo ancora bagnate di pioggia cercando prepotente in uno spicchio di cielo un segno o anche solo un cenno di pietà, per tutti i sogni che non ho voluto sognare, i tesori che non ho voluto scoprire, i misteri che non ho voluto svelare. Ma guardavo un cielo troppo piccolo e torbido di luci.
Poi, l’ho visto: all’inizio del corso, a sorprendermi, un tasso. La figura tozza, il muso appuntito, il mantello a strisce bianche e nere, scalpicciava con le unghie robuste sul lastricato in pietra, in mezzo alla strada, annusando una qualche traccia conosciuta solo a lui. Lo guardavo con meraviglia, in silenzio, immobile: un tasso nel centro storico di Massa Marittima, a passeggio tra le logge e il palazzo del comune, a razzolare tutto intento in mezzo alla piazza, che si avvicinava lentamente, senza accorgersi, a me; ad un certo punto, come se all’improvviso avesse avvertito una nota stonata, ha alzato il muso e mi ha vista; si è fermato impaurito e siamo stati lì, un momento lungo uno stupore sospeso, a guardarci. Finché abbiamo capito entrambi di avere sbagliato mondo.
Per lui è stato facile: è fuggito via di scatto, attraversando la piazza e imboccando una viuzza laterale che riporta nei campi; io sono rimasta imbambolata, credendo di non avere alcuna via di fuga.
Ma un attimo dopo, in modo istintivo, mi sono alzata e correndo l’ho seguito per la stessa viuzza dove si era infilato, attenta a cogliere il senso di un movimento o il cozzare duro dei suoi unghioni sul selciato. Ho sperato di ritrovarlo svoltato l’angolo della porta in pietra, di rivederlo prima che, attraversata la strada, si tuffasse oltre l’argine tra i rovi del podere lasciato in malora, ho sperato che di nuovo alzasse il muso e mi guardasse e mi dicesse ancora: sorprenditi; volevo che mi dicesse: slegati, staccati da terra e sogna.
Mi sono scoperta a sorridere: strani gli incontri nella mia notte, e chissà quali altre cose straordinarie ci si muovono dentro, da guardare con meraviglia e senza aver paura, avvicinarle o farsi avvicinare e poi inseguirle, non importa riuscire ad afferrarle; oggi si sono trovati insieme un sentimento buio, un tasso ed una corsa per regalarmi un sussurro che calma l’arsura e quella sete inascoltata che non sapevo spengere; un sussurro potente ed ostinato che mi riporta la voce sommersa delle emozioni.
Ho chiuso gli occhi e ho ascoltato dentro un silenzio che si rompe in pezzi di specchio che frantumano a terra, per fare posto ad una nuova immagine di me; ho udito, dal profondo di una terra abbandonata, sgorgare qualcosa di antico e nuovo capace di dare rilievo ai miei chiaroscuri e ritmo al flusso dei pensieri; ed ho sentito, in una eco dilatata all’infinito, di volere inseguire le attese che portano al domani.
E disegnare una nuova linea del mio orizzonte con il coraggio di desiderare.
Desiderare di permettere ancora a qualcuno di cogliermi con uno sguardo lo skyline dell’anima.

Ilaria Salvi