Testi Niccolò Innocenti, "Prose pop"
Niccolò Innocenti
Prose pop
Dondolando affaticato, con il cappotto tabacco, uno zombie aristocratico caracollava verso le sue
due piccole sporche e disfatte stanze. C'è voluto poco per cambiarsi e scegliere gli abiti giusti per il
lavoro: un bomber da naufrago senza maniche, un jeans color del jeans, per dire che - ha un paio di
jeans color del jeans e sa stare al mondo - uno zainetto scolastico blu, rosso e giallo.
Dorme, sotto le pensiline, acccanto allo sferragliare sonnambulo di treni misteriosi che collegano
Reggio Calabria e Bolzano; attreversano scarpate e prati languidi, mari materni, e deliziosi inferni
mediterranei. Sonnecchia con le braccia conserete e le stecche di legno logoro sotto la schiena, mira
il cielo a pezzi, le sue scarpe consumate, vede, tra i binari, un piccolo fiore giallo, un umile e
popolare dente di leone.
I sedili del vagone restano più comodi e la comitiva di ragazzi che sgranocchiano chitarre clericali
sono solo una culla antica di un catechismo dolce e giovane. Come si fa a pranzare con una banana
e un'isalata? Non c'era tempo da perdere.
Nel senso che con un plico di fogli si arrampica nella vita, entra nell'uffico specifico con l'adetto
cordiale. Sta insieme al suo giubbetto di salvataggio e i suoi jeans, sulla sua faccia il desiderio
stampato di farcela.
Sembra che tutto vada per il meglio, ha la carta per circolare. Ci vuole solo un motore che parta.
Con il suo piccolo fuoristrada formato famiglia, una Panda dei favolosi anni '80, che cigola come
una casa di spettri, rotola tra le curve della placida periferia in cerca di una carica, una batteria, una
chiave a brugola, una candela, una gomma, una chiave a pappagallo, non gialla, metallo, un posto
nel mondo, un tassello nel mosaico, un' altura da dove vedere meglio.
Non c'è la ruota. In tutta la valle non c'è un uomo che abbia inventato e collaudato una gomma per il
progresso motorizzato. Strette di mano, denti neri, mani gommate, doboparda al metano, capelli
sporchi, bestemmie gracchiate. - C'è quel gran genio del suo amico che sa montarlo -. Saranno i
suoi jeans color del jeans, i suoi capelli al grasso di camion, l' utlilitaria tremenda, ma sta
simpatico a tutti questi uomini che sanno stare al mondo e fare il loro lavoro. Le radio delle officine
allargano l'eco dell'odor di gomma e diffondo l'artista più popolare di tutti, il più meccanico dei
meccanici, con il suo amore cantato e ricantato e così amorevolmente piacevole. Le radio stridono:
baciami ancora, baciami ancora, baciami ancora. Pistole pneumatiche, vignette porno, fiamme
ossidriche, calori e flatulenze, grandi e immensi meccanici che bevono Fernet e amano le loro
mogli, costruiscono il suo cavallo motorizzato che vola ora nella notte. Il gelo micidiale gli ferisce
gli occhi e gli pietrifica le braccia, eppure sente il motore del cuore ben iniettato di spilli,
carburazione e pistoni vitali.
Si sveglia, in una nuova mattina di metallo, e tutti sono a forma di chiave a brugola. Tutti pezzi di
ferramenta che prendono il caffè, leggono il giornale, bevono Campari e preparano frittate a
brugola, no, con le cipolle. Baciami ancora baciami ancora.
C'è qualche chiave a brugola più robusta, si ingozza sempre di rigatoni e viti doppiofilettate. Eppure
le chiavi a brugola sanno stare al mondo come gli uomni che fanno i meccanici e quel gran genio
del suo amico.
La 'apitale.
Sfreccia correndo lungo la statale sempre più sporco, sempre più cowboy, con il suo cavallo nel
cassone della diligenza, il suo sigaro spento, le unghie luride, gli occhi rapiti dai ritmici
tergicristallo e i piccoli furgoni lungo la strada pieni di fiori colorati.
Scarica, carica, scarica, carica, lega, slega, sciogli, monta, smonta, lega, mordi, stringi, si gratta ogni
tanto. Certo, è un uomo. Lega, frega, sfrega, torci, brugola? Che panza quella chiave a
brugola. Fatto.
Firenze. Via Ghibellina. Il nuovo scooter lucido e fiammante, rilassato e tronfio come un leone
marino dopo l'orgasmo lo guarda con i suoi occhi orientali e gli ricorda che lunedì sarò pronto per il
lavoro. Logoro com' è cerca un posto da duri a morire per pranzare. In Piazza dei Ciompi la cara
signora dei fiori ha messo fuori del banco tanti secchi smaltati d'azzuro, pieni di tulipani gialli e
rossi che scrosciano a cascata. Una frattaglia colorata lo scalda e gli rinfranca i muscoli. La radio
squittisce popolare: baciami ancora, baciami ancora.
Crede che quel leone marino non voglia per nulla andare al lavoro, ma desideri sentire soltanto sulla
sua sella di pelle, sulla sua pelle, due graziosi shorts estivi di jeans color del jeans, una carezza
dorota, due ginocchia dolci e delicate. Due meravigliose gambe bagnate d'estate. Come può essere
un uomo in un mondo di altissime e sicure chiavi a brugola che fanno il loro lavoro? Come può
prendere a pugni il grigio cielo con il suo cappello da gaucho e la sua forza titanica, il 4x4, le corde
ingrassate, il tabacco rovente e i suoi pensieri a cento all'ora che acchiappano i primi fiori di pesco
che colorano tenui le campagne madide di pioggia fredda e scura? Ma, dice, c'è sempre Lei qua in
mezzo? L'autoradio canta: baciami ancora, baciami ancora, nel bellissimo spreco di tempo, nella
vita, dove i bulloni che cadono e il vino che cala abbracciano il tempo che passa.
Avremmo dovuto vedere quei tulipani.
Sono le tre e trenta del mattino e si sente molto vicino alla sua sveglia. Non questa che ha qua, ma
quella che ha nella sua camera di Firenze. Vicino alla sveglia e lontano da Lei, perché, in qualche
modo, la cara sua, leggerà queste parole soltanto di mattina, e la luce le modificherà le emozioni. I
raggi del sole filtreranno piano dalle tapparelle abbassate, schiuderanno i suoi occhi e
indirizzeranno banalmente i suoi gesti allo schermo del telefono, e oltre ad altri messaggi ne leggerà
uno: mail. Non sarà la stessa cosa. La notte culla le sensazioni, le abbraccia, le veste di un trasporto
carico di speranze per la luce futura, che la luce, appunto, con i suoi raggi, spezza. Insomma, non
saranno sulla stessa direttiva, domani, ma lui ora ha la finestra della sala aperta sulla sua sinistra,
qualche civetta notturna canta, il rombo degli autocarri rotola nel buio, la luna placida lo protegge, e
allora scrive.
Si sente vicino alla sua sveglia. Una radiosveglia da poco, due spiccioli in un centro commerciale.
Ha impressa davanti la Tour Eiffel e si sente un poeta ad ascoltarla. Questa sveglia si bloccò al
passaggio della cara sua. Si ricorda di quando dolcissimamente si asciugava i lunghi e neri capelli
nel suo piccolo bagno, mentre lui riscaldava la pizza nel forno. Tutto si interruppe di colpo e dovette
scendere due rampe di scale per riattivare il generatore. Bene, da quel momento (se ne sarebbe
andata di lì a qualche ora), la sveglia si è bloccata, interrotta.
Ora la capisce, gli è vicina, solidale, gli è amica. Descrive un desiderio grande.
Vorrebbe che il tempo si arrestasse, che le aste dei caselli autostradali si bloccassero a metà nella
loro discesa. Che le risate e i pianti dell' umanità si arrestassero nelle case, nelle piazze, nelle strade.
Che le voci dei bimbi che giocano sullo scivolo si frenassero con lo stridore stesso delle vesti sulla
lamina scivolosa. Che le piccole e minute gemme delle future grandi foglie allentassero la loro
crescita. Vorrebbe che le radici dei grandi e contorti pini marittimi smettessero di scavare il terreno,
che i fiori bianchi dei ciliegi si serrassero e non inondassero più le strade del loro fresco profumo,
che le anatre selvatiche si gelassero nella loro ultima beccata di erba verde lungo il fiume, che
l'acqua si distendesse, che il mare mai calmo si placasse, per un istante. Vorrebbe, come la sua
sveglia, che i passi degli uomini non riecheggiassero più per le vie della vita: secchi, tronfi, accesi,
pesanti; che le luci traballanti dei lampioni la smettessero di friggere falene.
Avrebbe voglia però, che dal capo estremo del mondo arrivasse un solo fruscio di capelli che si
scostano e ricadono tra le scapole, si distendono abbandonati al collo. Agognerebbe che il profumo
dell'onda della sua chioma abbattesse le barriere naturali e i confini, gli arrivasse e gli inondasse i
polmoni, di uomo vivo in un mondo fermo e spento.
Ma che ne può sapere lei. Domani, con la nettezza urbana che riparte, con le metropolitane che
sferragliano, con i suoi amanti che spasimano per bere un po' di luce dai suoi occhi. La stessa luce
che non l'abbraccia affatto come i bui profumi di stanotte. Lo farebbe lui. Vorrebbe prenderle
dolcemente il mignolo, stiraterglielo un poco e invitarla a volteggiare nel fresco valzer che la notte
ora offre alle anime dolci. Che peccato non avere un pugno di lenzuola in mano. Ma lei che ne sa,
lui la vede da qua, ma ormai, è giorno.
Cara mia,
vorrei raccontarti la mia giornata. Una giornata banale, ma, parafrasando il poeta: un'intera giornata
d'un uomo, è forse poco per riempire tutto un racconto?! Vedremo. Almeno una giornata è più di un
attimo. La facciamo partire dal pomeriggio? La mattinata era stata già piuttosto artistica. Già nel
rovistare e nel far trillare le chiavi di casa sapevo bene cosa mi sarebbe aspettato. Stanze povere,
bianche, sterili, piccole, anonime, libere, e: luride. Sporche, imbrattate, polverose, fangose negli
angoli, sottilmente levigate di polvere spessa e stratificata. Mi sono buttato supino sul letto, l'unico
mobile rimasto che mi lasciasse rilassare. Ho sospirato e ho davvero deciso che sarebbe stato il
momento per concludere una complessa struttura di momenti incastrati di polvere, eppur reali, fatti,
esistiti, pesanti di mobili gettati.
La radio gracchiava l'anniversario della nascita di Luigi Panariello, ehm, pardon, Pirandello, e tra
una musica classica sconosciuta e uno zapping radiofonico tra Ligabue e Vasco, mi sono tolto la
maglia e mi sono messo a strofinare. Un lavoro minuzioso e scrupoloso, da certosino. Togliere
oggetti, allontanare, spostare, sgrossare, spazzare, riordinare, riflettere, rimirare, sgrossare, rialzare,
rispostare, fermare. Ora? Spazzare, ripulire, sveltire, agguantare prodotti igienizzanti. Igienizzare,
disinfettare, sudare, trasalire, riordinare, elencare, elencare, elencare azioni di vita, solo azioni, solo
azioni, solo azioni.
Temporale.
Un' aria ignota e curiosa s'insinua dalle finestre aperte e solletica la mente di chi, là, a pulire, non ci
vorrebbe stare. Aria viva e vitale, frizzante dice il popolo contadino quando corre per l'aia a
richiudere i polli nell'attesa, del temporale.
Temporale.
Esterrefatto occhio di fronte a nuvole minacciose e ingombre, di vita. Alla sensazione del mio
sudore che sgocciolava lungo le scapole sono come stato solleticato da un'immagine che, in qualche
modo riguardava me, lì, in quel momento, e non solo. Ma che strano, ma che razza di immagine.
Sempre sudato, sempre con lo spazzolone in mano, sempre la stessa aria sinuosa. Eppure. Quale
messaggio dall'aria? Per fortuna è arrivata la sera. I micrograni di polvere si sono ben impastati con
la varichina e la leggera peluria dei miei avambracci, e, la rottura di balle. Chi ha più voglia. Bel
lavoro, ben fatto. Riconsegno un bel pacchetto pulito e ricucito, tenetevelo voi, io esco.
Ah che bell'u cafè, pure in carcere lo sanno fa'... Ah che bella 'a città, con le nuvole che stanno
arriva', con il vento che gonfia i vicoli di spume e di vele bianche, fitte di gabbiani urlanti. Sta
arrivando. Ben predisposto a camminare un po' senza spendere una lira, mi ritrovo con una busta
azzurra di libri vecchi e senza un soldo . È sempre la stessa storia. L'ultima banconota per
comprarmi la cena.
Temporale.
È arrivato con preavvisi minimi ma determinati e certi. È arrivato con sparute gocce solitarie ma
grandi e pesanti, che non potevano che annunciare un monsone indiano con uragano e tetti
vorticanti delle case di legno del Kansas insieme. Ho visto le scarpe rosse della piccola Dorotea
volteggiare sopra piazza Salvemini. I lastricati si sono gonfiati belli e impettiti. Le mura dei palazzi
si sono allargate e hanno troneggiato altezzose difronte al muro d'acqua impetuoso e forte che
trafiggeva alberi, case, strade, auto, poveri e disgraziati scooter. Le gocce come frecce grigie e
taglienti che di traverso conficcavano le loro forze nelle mura dure che, però, la liquidità sinuosa
dell'acqua ne mostrava le falle, le gore, le malefatte, le crepe resistenti, eppur sempre crepe. Il grigio
si faceva più grigio. Il nero più nero. Le saette scorrazzavano con il loro rombo libere, con
l'autorizzazione scritta saettante del padre loro, antico nume Zeus.
Mi sono ritrovato come un pulcino bagnato davanti all'ingresso del supermercato. Ho
fortunatamente impietosito un commesso al banco rosticceria che mi ha quasi regalato un'insalata di
mare, seppie e calamari. Ho aggiunto delle olive grandi e condite. Un vino bianco. Alla fine ho
cenato con delle tapas se contiamo la baguette d'accompagno. Le comitive di spagnoli che parlano
la loro fluente lingua mi fanno sempre agitare, perché il cuore mi batte a mille.
Le scarpe da barca, che reggono le onde, hanno retto anche le piogge monsoniche torrenziali. Sono
rientrato a casa, smazzando le chiavi, girando il chiavistello, facendo stridere la porta.
(parentesi)
La casa ora, con il rugliare sfrenato della pioggia nella corte, e le buste colorate e accatastate sul
tavolo, non dico che acquistasse una certa vivacità, ma sapeva di vita.
Ho apparecchiato copertine e costole di libri vecchi: rosse e gialle. Bustine di carta azzurre. La bella
bottiglia di vino sulla destra. Non ci capisco una mazza di vino, ma qualche bottiglia ha uno
spessore interessante e spesso il vino all'interno è buono. Grandi olive colorate. Sabbia nelle gocce
dalle nuvole, vènti forti, finestre spalancate. Giovane poeta antico del mediterraneo dammi aria e
vieni a me. Vieni qui e dà un'occhiata a questa tavola che, per buoni intenditori, ha dello squallido e
del suggestivo allo stesso tempo.
Parentesi:
Schiavistavo, frugavo maldestro tra le tasche e le chiavi frizzavano del loro scintillio sonoro. Forse
avevo dato lo straccio il giorno, forse a petto nudo. Tu non c'eri. Forse ero uscito ed ero, ora,
rincasato. Le stanze erano grandi, la luce viva della sera inondava le pareti, colorate di tue scelte, di
tue voglie, di tocchi tuoi (chi l'avrebbe detto). Un odore di limoni giungeva da fuori, a cavallo
dell'umidità dell'aria si abbracciava al vapore liquido e scivolava tra i corridoi e le poltrone; mi
raggiungeva. Gli slanci della tua vitale personalità avevano creato, nella condivisione, una dimora
di dolce, dolce amore vissuto, provato, tentato, sofferto, voluto, amato.
Appoggiata alla finestra sorridevi d'un fremito di bimba gioiosa, perché non sapevi bene se
aspettare la pioggia piena di risa e di solletico, o me, pieno di risa per te, per la meraviglia di te,
della pioggia, della vita. Della tua splendida forma di vita che sei, appoggiata alla finestra, che
aspetti il temporale d'estate tra i limoni piantati, finalmente scoperti e ritrovati, io m'inondavo. Con
gli occhi tuoi azzurri che trafiggono il cielo, mi dicevi, per natura, ciò che non mi dici mai.
Cara mia,
ho ripreso i miei vecchi tacchini, pardon, taccuini, per continuare a riportare al computer i miei
vecchi scritti. Le colonne di ferro scuro della biblioteca non sono un gran che, ma nella loro griglia
disegnata, mi proteggono. Tanto per farti capire che alzo gli occhi, vedo i libri intorno, le costole
colorate e sparse, la sera che scende dietro la porta a vetri. Il grigiore dei palazzi mi diverte, la luce,
in ogni suo stadio, rende liberi. Credo che prima o poi raccoglierò le righe che ti dedico ogni tanto,
e una volta stampate te le farò ritrovare da qualche parte, belle e impilate, con un fiocchetto a
stringerele.
Ti ricordi le prime parole che ti dedicai dopo la tua partenza per Madrid? Mi raccontavano sorpreso
nel sognarti tra le strade di Firenze, e nello incontrarti per caso ad angolo di un vicolino, quasi per
sbaglio, con un piccolo scontro, in- con- tro. Di nuovo, per l'ennesima volta, mi riscopro a sfogliare
le pagine del mio quadernino nero, pieno di scarabocchi illeggibili, alla ricerca di tutti quegli scritti
che ahimé, ho perduto, e il ho perduti davvero, mannaggia. Avrei voluto ritrovare, proprio ora, quel
quadernino di carta paglia che conteneva qualche appunto, qualche sogno, uno in particolare. Avrei
voluto ripescare quello che mi scosse tanto, nato nella cameretta di via Fabbroni, che ti vedeva al
centro.
Eri molto bella, una luce cremisi avvolgeva le immagini e i personaggi del mio piccolo
cortrometraggio, e nell'allungato appartamento, al numero 60, si teneva una festa. Emma era
indaffarata nei preparativi della cucina, io entravo in casa di ritorno da chissà quali giri e il clima
era quello di gioia, di attesta, e di calore. Rientravi dietro di me, trovandomi con Emma a
parlottare in corridoio. Noi due, sorpresi, fummo subito felici di gridarti che il tuo nuovo taglio di
capelli era splendido, che stavi molto bene. Lo dicevamo da amici. Lo dicevo da amico. Dentro di
me contemplavo la tua bellezza, la luce che di guizzo collegava le tre piccole stelle luminose sul tuo
volto. Gli occhi allegri, il sorriso di luna, i tuoi grandi cerchi d'argento alle orecchie. Il caschetto
moro corvino ti curava il viso, dolce e graziosa ti muovevi con le mosse gentili che hai.
Mancava da bere per gli ospiti. Mi ofrii subito per uscire a prenderne un po', da solo. Tu insistetti
per uscire con me, mi sfiorasti la mano, saltammo fuori dal portone insieme, gioiosi e maliziosi. Mi
baciasti dolcemente dopo un passo di libertà per strada.
Ne conosco, ora, il sapore.
Ecco, l'ho ritrovato. Ho rispolverato un cassetto sotto una piega dell'encefalo, un piccolo baule nel
lago del cuore.
Stamani si è divertito ad osservare per brevi attimi delle cince infreddolite. La capocchia della testa
non si riusciva a distinguere bene dal resto del corpo, gonfio e lievitato dal gelo. I sottili fili
delle zampe si muovevano tra i più gracili rami del tiglio, gli invisibili. Un'audace ha rotto col suo
corazzato ventre il muro della paura e ha bucato con appetito un diospero maturo, appeso con un
artificio, vicino alla terrazza, da suo padre. È strano notare come i tigli possano così grassamente
fruttare d'inverno, Lui, che voleva tagliarlo, quell'albero. Il cacciatore. Credo che gli spaghi rigidi
delle zampette gli abbiano ricordato la nidificazione delle cince, crede, perché, all'inizio, ha solo
pensato a come si accoppiassero. Se immagina l'atto dell'amore si figura sempre quello degli
uomini.
Da qui l'idea di due stanze, o una sola, una mansarda,che ha da ristrutturare, con camino e due
aperture: una sul tetto e una dalla discreta finestra del bagno che dà sulla pineta della piscina
all'aperto del paese. Calda e accogliente nei mesi freddi, un inferno d'estate. Ha pensato che qualche
suo amico architetto potrebbe disegnare, seguendo le sue fantasie, gli interni. Rendere l'ambiente
amorevole, con l'intento di starci nei giorni di passaggio, di visita alla sua famiglia. Si vede con due
stivaloni gommati da safari, in abiti chiari e sereni, giacca color sabbia; pelle sicura tinta sul volto,
con qualche ruga di carisma. La calura estiva e il tetto vicino non concilierebbero molto bene il
sonno e le grandi capovolte nel letto lascerebbero cadere lente le lenzuola sul pavimento. La musica
da fuori, delle grandi notti di festa, dai forti colori accesi, saetterebbe rapida e violenta nel vuoto tra
le pareti e il ronzio di un vociare ininterrotto sarebbe compagno dei suoi occhi sgranati.
Ripenserebbe alla camera di Madrid, in via Fernando el Catolico, il vetro sboccato per permettere
ad una sperata aria di entrare, insieme, per certo, a un rotolare stanco di vetri di bottiglia, un vociare
di dondolanti ubriachi; coperchi di secchioni sbattuti, qualche sirena. Ricordare come le prime volte
il suo corpo nudo si abbracciava tenero ed esausto al proprio.
Scoprire che quell'anima nuda di graziose e sensuali forme levigata era, e ora è, una cincia
impavida.
Niccolò Innocenti