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Maria Grazia Lotti
Spesa a domicilio

Si affacciò sulla porta di bottega e mi disse:
«Allora che fai, vieni con me?»
Più che una domanda, era un ordine. Non potevo dirle di no. Terminai lì il mio gioco. Raccolsi veloce i soldatini che avevo messo in fila sulla soglia, riempiendo le tasche dei pantaloni. Mia madre si fece posto fra le strisce di plastica della tenda e con il capo mi fece segno di seguirla. Stringeva nelle mani due grosse borse. Dovevano essere anche pesanti, a giudicare dallo sforzo che faceva nel portarle. La seguii, camminando silenzioso sul marciapiede fino alla macchina, una vecchia “Cinquecento”, parcheggiata lì vicino. Sistemò i fagotti sui sedili posteriori e mise in moto. Non aveva neanche salutato mio padre e mio zio, uscendo dalla macelleria. Non era arrabbiata con loro, faceva sempre così anche in casa, spariva da una stanza all’altra come un fantasma. La sua testa era in continuo movimento, non solo le sue mani. Mi sedetti accanto a lei. Agguantai la manovella del finestrino e lo aprii tutto, poi sporsi il gomito fuori, per apparire più grande, come faceva mio padre quando fumava. Mi guardò perplessa, forse per l’atteggiamento da uomo che volevo mostrarle.
«Il vento sulla faccia mi fa bene» dissi con un filo di voce e con i capelli tutti arruffati. La guardavo di sottecchi mentre guidava. Ero seccato e nello stesso tempo affascinato dai suoi gesti: cambiava le marce, era sicura, padrona della strada.
«Dove andiamo?»
«Andiamo a fare una girata in campagna» e mi sorrise. Da una tasca del grembiule tirò fuori un bel paio di occhiali da sole e li indossò con naturalezza. Che bella, la mia mamma, mi ricordava quelle donne nelle foto di “Grand Hotel” o del “Radiocorriere”, ecco, sì, mi sembrava un’attrice la mia mamma…
Uscimmo dal paese e imboccammo una strada tutta curve, discese, salite. C’era molto traffico, un nastro continuo, colorato, di macchine, ma anche autocarri che arrancavano sui tornanti lenti come tartarughe. Se si fosse incontrata davanti a noi la corriera che faceva tutte le fermate come il ciuco del pentolaio, con quel puzzo d’olio bruciato che usciva dalla marmitta, sarebbe stato un problema sorpassarla, anche per la mia mamma, che era una brava pilota. Il mio stomaco cominciava a far capricci, lo sentivo, per questo sporgevo sempre più la testa fuori, come a mangiare l’aria, per diminuire il mio malessere. Ma non dicevo nulla a mia madre, magari si impermaliva, pensando di non guidare bene.
«Lo sai come si chiama questa strada?»
Io scossi la testa, non lo sapevo.
«Si chiama Cassia, l’hanno costruita gli antichi Romani.»
«Oh, allora è importante. Dove va?»
«Da Roma a Firenze.»
Continuò a darmi altre spiegazioni, perché sapeva che ero un bambino curioso, ma la ascoltavo distratto, il mal d’auto non accennava a diminuire. Che sofferenza, non osavo chiederle di fermarsi. Che proposta la sua, in auto a fare una girata. Quanto era lunga! Era trascorso un secolo da quando eravamo andati via dal negozio. Chissà, se fossi rimasto lì, forse sarebbero passati dei ragazzi e sarei andato con loro a scorrazzare per il paese, a suonare campanelli o a giocare a nascondino…
L’auto continuava a macinare strada. A un certo punto uscimmo dalla Cassia e ci inoltrammo in una strada tutta in salita. I rumori cambiarono quasi improvvisamente. Il sottofondo delle macchine arrivava ora ovattato. Si alternavano, a destra e a sinistra, vigne, olivi, cipressi, distese di stoppie di grano tagliato, giallo come il sole sopra la nostra testa. A un certo punto vidi una costruzione imponente, tutta fortificata, con i merli e molte torri. Una aveva anche l’orologio. Saltellai sul sedile, tutto contento. Forse eravamo giunti alla meta, fine della girata!
«Mamma, quello è un castello?»
«E’ un monastero, ci vivono i monaci. Prima erano tanti, ora sono pochi e tutti vecchi. Si chiama Badia a Passignano.»
Man mano che ci avvicinavamo, mi colpiva l’imponenza di quell’edificio. Nel parcheggio c’erano molte macchine e anche un pullman, tutt’intorno frotte di turisti, sudati, rossi in viso per la calura.
«Mamma, ci si ferma?»
Scosse la testa e io non aprii più bocca. Passammo davanti a quel luogo che mi incuriosiva. Mi sarei sgranchito volentieri le gambe, magari camminando in bilico sul muro di cinta, senza cadere, come l’omino sulla corda al circo. Uffa, non si arrivava più a destinazione.
La “Cinquecento” e la sua imperterrita autista continuavano a inerpicarsi ancora sulla salita. Ora la via era sterrata ed entrava nel bosco. Ai lati della strada, la vegetazione diventava sempre più fitta. Non importava più strizzassi gli occhi per la sferza del sole. C’era ombra, anzi, quasi buio, odore di muschio. Ogni tanto l’aria scura era trapassata da sottili lamine di luce. Ancora curve, salite e discese, la mamma non faceva altro che scalare le marce. Passammo davanti a un cimitero di campagna. Si fece lesta il segno della croce. Girò il capo verso di me. Voleva che facessi lo stesso gesto, ma non le obbedii. Misi un bel broncio e detti una spallucciata. Lei invece no, era religiosa. Sul cruscotto aveva messo diverse immagini sacre con la calamita. Ogni volta che faceva la gita con la parrocchia ne acquistava una e con precisione maniacale le aveva messe tutte in fila, come io facevo con i soldatini o le macchinine di latta.
Mi ero stufato di quel lungo viaggio. Perché mia madre mi aveva voluto portare con sé, mannaggia. Cominciavo a dar segni di insofferenza, diventai petulante:
«Mamma, ma quando si arriva? Mamma, ma quando ci si ferma? Mamma, mi sono annoiato… mamma, quando si scende?»
«Fra un po’ siamo quasi arrivati.»
«Dove? »
«A casa di un signore.»
«Chi è? Perché andiamo da lui? »
Silenzio. Sospirò e poi:
«E’ un chirurgo di Careggi. Telefona, ordina la spesa e noi gliela portiamo, consegne a domicilio…»
Stavo diventando sempre più nervoso, non capivo perché questo signore non venisse a prendersela da sé la carne a bottega, come tutti gli altri clienti. Sicuramente ordinava bistecche e filetto. Non avremmo fatto tanta strada per portare un chilo di lesso.
«Almeno è ricco, questo signore?» Dissi stizzito.
«Perché me lo chiedi? Penso di sì, è una famiglia benestante la sua. Cambia qualcosa per te?»
Rispose mia madre con la sua solita flemma. Non alzò la voce, ma con la destra si mise gli occhiali sul capo e mi ficcò negli occhi uno sguardo severo.
Il cancello era aperto, un lungo viale di cipressi e poi la villa, bianca, maestosa, intorno all’entrata orci di cotto e piante di limone, gigantesche. Lo spicchio di sole che penetrava dalle fronde illuminava i frutti come palline di Natale. Un uomo ci aspettava e ci salutava da lontano.
Aveva lunghi capelli, bianchi. Un vecchio… immaginai la noia dei suoi discorsi. Non lo avrei ascoltato, avrei chiesto il permesso di gironzolare per il giardino, magari dietro una lucertola.
Quel tipo dette la mano a mia madre e la strinse anche a me.
«Cosa ti è successo, giovanotto?» Mi chiese. Forse aveva notato che ero contrariato di quella situazione. Arrossii. Le uniche parole che mi uscirono di bocca come un sussurro furono: “nulla”. Ci fece sedere sotto un pergolato, per rinfrancarsi dalla calura. Solo allora notai il frinire forte delle cicale, il rumore della “Cinquecento” lo aveva fino allora coperto. 
«E’ stato un lungo viaggio per te» mi disse «Ma tu eri seduto nella macchina, pensa che io questa strada l’ho fatta decine di volte, a piedi in tempo di guerra. La guerra l’abbiamo fatta quassù. Eravamo ancora ragazzi…» Guardò mia madre con complicità, lei annuì. Vidi rabbuiarsi il viso di tutti e due, come un lampo che squarcia le tenebre. Raccontò che in quei boschi, intorno a Badia a Passignano, era operativa una banda di partigiani.
«Da quassù si domina tutta la valle della Pesa e poi ci si collega con Fabbrica, oppure dall’altra pendice si scende fino a Montefioralle e a Greve, nel cuore del Chianti. La vegetazione è fitta, i viottoli impervi, ma a piedi si percorrono chilometri, stando nascosti, senza essere visti dai nemici.»
La sua voce si ruppe dall’emozione, poi riprese sicura. Raccontò che suo padre aveva accolto nella sua villa nel bosco decine di sfollati da Tavarnelle, dalla Sambuca, dal Bargino. Anche i miei, al passaggio del fronte, avevano trovato rifugio nelle stanze di quella villa. Lo avevo sentito dire altre volte.
«Tuo nonno ha sfamato tutta la gente che si era nascosta nelle cantine di questa casa. Che coraggio, sempre avanti e indietro con le bestie morte sul calesse, nascoste sotto le balle del fieno. Poi li sistemava qui i pezzi della carne.»
Guardai la mamma, i suoi capelli neri e la pelle abbronzata, il viso imperlato di sudore.
«Le donne, sfollate come tutti gli altri, lo aiutavano a spennare le galline. Si doveva sopravvivere… La tua mamma e i tuoi zii erano dei bambini, ma forse anche loro si ricordano qualcosa del passaggio del fronte.»
Cercò l’approvazione di mia madre, ma lei aveva lo sguardo perso nel vuoto. Si baloccava con gli occhiali da sole, li indossava e se li toglieva di continuo e poi se li rimise sulla testa.
«Io ero terrorizzata dai soldati tedeschi. Il rumore dei tacchi dei loro stivali hanno rimbombato a lungo nelle mie orecchie, una specie di ossessione» intervenne la mamma che fino ad allora era rimasta zitta. «Dopo quello che successe poco lontano da qui, la strage di quei poveri contadini…»
La sua voce era rotta dalla commozione. Non era da lei. Doveva essere una brutta vicenda a suscitarle quella reazione, di solito era una donna tutta d’un pezzo. Probabilmente aveva già affrontato quell’argomento e lei non ce la faceva a sopportare il peso di quella storia. Abbassò la testa e si allontanò dicendo:
«Vado a salutare sua moglie, è tanto tempo che non la vedo» e si diresse verso la porta della villa.
L’uomo allora cominciò a narrare:
«E’ una sera d’estate, la fine di luglio del 44. Me lo ricordo bene. I tedeschi sono in ritirata, stanno per arrivare gli alleati. In un casolare vicino a Fabbrica vivono quattro famiglie di contadini. Sono uomini, donne, ragazzi. Stanno cenando. Chissà, forse parlano di liberazione, attendono con ansia che la guerra finisca, desiderano solo tornare alle fatiche quotidiane nei campi. C’è tranquillità fino a quando, improvvisamente, irrompe in casa una pattuglia di soldati tedeschi. “Lavorare, via, lavorare!” Dicono nel loro italiano stentato. Sotto la minaccia dei mitra, gli uomini si alzano senza opporre resistenza e seguono quei soldati. Non hanno nulla da temere, non sono partigiani, non hanno armi nascoste in casa o nella stalla. Sono contadini abituati alla fatica. Camminano nel bosco per due o trecento metri. Arrivano a una radura. C’è l’ordine di fermarsi e di riunirsi tutti insieme. Dopo pochi minuti sono crivellati dai colpi dei mitra. Forse non si sono neanche resi conto di quel che stava per succedere, lo spero…»
«Come si chiama quel posto?»  Chiesi io, curioso.
«Pratale, si chiama Pratale.» Sospirò, si avvicinò e mi accarezzò. «E’ un luogo da favola, una spiazzo nel bosco, alberi, erba e cielo. Nei giorni sereni d’estate alzi la testa e vedi le nuvole come coriandoli tra i rami delle querce. Ci vado spesso e quello che mi colpisce ogni volta è il canto degli uccelli, continuo, allegro, che solo il vento tra i rami confonde…»
«Invece, lì, il massacro» dissi con un filo di voce.
L’uomo annuì: «Dodici uomini inermi, tutti civili…»  e si asciugò con la mano una lacrima che gli solcava una guancia. Solo a questo punto notai il mormorio del vento tra le foglie del giardino e il grido degli uccelli. Rabbrividii. L’uomo aveva terminato il racconto.
«E’ una strage dimenticata sotto il macigno della storia, gli storici non hanno indagato abbastanza.»
«Secondo lei, qualcuno ha mandato i soldati a casa di quei contadini per prendere gli uomini e ammazzarli?»
Non rispose.
«Oppure i tedeschi ci sono andati di loro iniziativa, perché avevano trovato qualche soldato ucciso?»
Con una mano strinsi un soldatino in una tasca, lui scosse la testa.
«Non si conoscono i motivi… escluderei la rappresaglia e anche una spiata da parte di qualche fascista.»
«Allora chi ha dato l’ordine di sparare a quei contadini?»
Tacque un momento, poi sospirò:
«Le bande dei partigiani erano molto forti in queste zone e chi era rimasto a casa aiutava come poteva questi combattenti un po’ improvvisati. C’era un legame forte fra la popolazione e i partigiani…»
«Forse i nemici volevano dare una bella lezione ai partigiani che si nascondevano in questi boschi?»
Dapprima tacque, poi raccontò che nel corso della ritirata erano state commesse anche stragi a iniziativa di singole pattuglie tedesche, solo per motivi di odio o di razzismo.
Ragionò a lungo, entrando in politica, come fanno spesso gli adulti. Stava dando spiegazioni chiare. Io stavo attento, non perdevo un solo passaggio, arrivando, dopo tanto argomentare, alla conclusione.
«Pratale, vicino Badia a Passignano, una delle tante stragi compiute dai soldati tedeschi in ritirata, una strage assurda e come quasi tutte le altre impunita!»
La sua voce aveva ritrovato vigore. Io ero imbambolato. Quell’uomo sapeva tante cose e soprattutto non mi stava raccontando novelle. Conosceva molti particolari intorno a quella vicenda. Chissà, forse era un partigiano, di quelli che si nascondeva nei boschi lì attorno, non nelle cantine della villa di suo padre con gli sfollati…
Non avevo mai sentito quelle storie vere, oppure quando le raccontavano in casa mia, che noia i discorsi dei grandi, mi ero distratto a giocare. Solo allora provai vergogna per gli improperi e per le cattiverie che avevo pensato nei confronti di “quel signore”, una persona che neanche conoscevo e che quindi non potevo giudicare.
Mia madre si era di nuovo avvicinata a noi silenziosa e si era accorta che avevo cambiato atteggiamento nei confronti di quel suo conoscente. Non facevo più il supponente o lo scocciato.
«Ora, prendi i fagotti di carne dalla macchina!»
Ordinò con i suoi soliti modi spicci. Non disse altro.
Quel viaggio avventuroso nella “Cinquecento” nei boschi, “quel signore”, la storia di una strage dimenticata e la spesa a domicilio mi avevano dato una bella lezione.

Maria Grazia Lotti