Testi Antonio Prete, "Tre poesie e una prosa"
ANTONIO PRETE
Tre poesie e una prosa
Stabat mater
Gocce di marmo sul viso.
Una spada la memoria
del suo verbo, del suo riso,
del suo passo nella gloria.
Sul volto spento del Figlio
i bagliori delle stragi,
sul vetro scuro del ciglio
i riflessi dei naufragi.
L’ afflizione tua è un deserto
che contempla nere lune,
con carcasse allo scoperto
e rapaci sulle dune.
Un delirio ancora strazia
con bandiere e cieche fedi
il nitore della grazia.
Tutt’intorno morte vedi.
Siamo, stille del tuo pianto,
nella tenebra dell’ora.
Come scorgere l’incanto
d’una trasparente aurora?
Meriggio
Il mare, ora, riluce d’un azzurro
quieto. In alto, la gloria fuggitiva
delle nuvole, contro un cielo ubriaco
della sua profondità. Sulla riva
le tamerici, che il vento arabesca
di tremori.
Quale stellare nodo
ha con questo fulgore una segreta
rispondenza?
In quale arca d’incognita
trasparenza potrà serbarsi il trionfo
di questo istante?
La sparizione, cuore nebuloso
dell’ora, non offusca il brividio
di luce che dell’aria è vaga trama.
Invocazione
Porta con te, parola,
l’albero,
il vento che è nell’albero.
E il mare,
la vela che è sul mare.
Porta con te il fiore e la stella,
la luce che è nel fiore,
la memoria che è nella stella.
Che il tuo suono, sia d’acqua
o di fuoco, di velluto
o di vetro, non intorbidi
il silenzio
che respira in ogni lettera
silenziosamente.
Appunti sulla libertà di Ariel
Ariel, creatura d’aria, compie imprese mirabolanti al servizio di Prospero, suo padrone, perché da lui ha ricevuto una prima libertà. Una libertà piegata subito ai voleri del nuovo signore. Non più rinchiuso nella prigione del pino – la cieca fessura dell’albero dove la strega Sycorax, madre di Caliban, lo aveva costretto - deve ora agire dentro un piano che non è suo ma di Prospero. È vero, in queste attività egli non risparmia energie né invenzioni. Le sue arti illusionistiche, sebbene si muovano dentro il potere magico del suo signore, sembrano trasformarsi nell’energia stessa della natura. La sua messa in scena cancella ogni parvenza di illusione : Ariel genera un’altra realtà, in essa entra e da essa si ritrae al momento giusto con acrobatiche virtù. Suscita la tempesta sopra e intorno alla nave del re di Napoli, balza ora a prua ora a poppa ora sul ponte, si divide e fiammeggia in più luoghi nello stesso momento, vola tra flutti e sartie, salta in cima all’albero maestro o sulle antenne o sul bompresso, chiama a sé e poi rilancia tutti i lampi e tutti i tuoni, fa tremare le onde con sulfureo fragore. Il naufragio accade senza che il naufragio sia. In tutto questo, certo, c’è un sapore di libertà. Ma questo è anche quel che Ariel sa fare per sua natura, come dichiara a Prospero appena compare per la prima volta sulla scena. Posso volare, dice, posso nuotare, tuffarmi nel fuoco, cavalcare i ricci delle nubi.
In queste azioni il suo essere a servizio passa in secondo ordine, la sua subordinazione pare eclissarsi, c’è già un esercizio della libertà in questo agire, c’è un anticipo di quel piacere che la vera libertà gli potrà assicurare in modo dispiegato e costante. Quella dovrà essere una libertà pura, svincolata da ogni dipendenza, sottratta a ogni comando.
Nello sguardo su Miranda, sul suo candore che si apre alla passione, sulla sua meraviglia dinanzi al mondo dell’isola che si trasmuta in sapienza d’amore, sul suo desiderio che da diffuso e umbratile si chiarisce e concentra e si fa palpito e attesa, in questo sguardo Ariel sente qualcosa che ha a che fare con la libertà : poter partecipare al divenire del mondo, al sentire delle creature. Ma non è ancora piena libertà. Non è lui a decidere la catena dei fatti, il succedersi degli avvenimenti , non è neppure lui a fruire delle trasmutazioni che avvengono sulla scena e delle quali è artefice. Si trasforma in ninfa, canta versi suadenti e dolci quando raggiunge Ferdinand per consolarlo sulla riva e quando lo conduce dinanzi a Miranda. Si fa arpia, battendo le ali sulla tavola prima meravigliosamente imbandita e poi fatta dileguare, irridendo con un canto Alonso e gli altri, gli stravolti illusi commensali approdati per magia nell’isola, poi tra tuoni, gesti di scherno e musiche fa entrare in scena le Forme. In un’altra scena con un tamburo incanta Trinculo, Stephano e Caliban trascinandoli nella guazza dello stagno.
Quando canta dolcemente, sente se stesso nell’aria delle vocali, nel soffio delle consonanti, nel respiro che tra parola e parola tesse fili di pensieri leggeri, nel cercarsi delle rime che trovandosi si baciano e abbracciano. Un presagio della libertà è la musica, l’arte della musica di cui è maestro ed esecutore. Consisterà nel libero e gratuito esercizio di questa meravigliosa arte la sua futura libertà?
Ma Ariel è solo una creatura che vive sulla scena, vive della scena, dell’arte di suscitare meraviglia. Certo, qualche vantaggio a lui viene da ogni impresa riuscita, sa che ogni azione è un passo verso la sua libertà, ma deve ogni volta ricordare a Prospero la promessa da lui pronunciata. La chiede fin da subito, la libertà, appena compiuta la prima impresa, quella della tempesta e del naufragio. E che cosa pretendi ora?, gli chiede Prospero. My liberty, la mia libertà, risponde deciso Ariel.
La sua libertà è quella sognata nei dodici anni passati nel buio del pino, nell’assenza di luce e di azzurro. In quei lunghi anni ha immaginato minuziosamente la sua libertà : è questa immaginazione che gli ha permesso di non annullarsi nel legno dell’albero, di non tramutarsi in corteccia e morire nel disegno di un lichene. Allora, in quelle oscure notti, non sognava una mezza libertà, a servizio di un duca che spodestato dalle infide manovre politiche del fratello cerca con le arti magiche di riottenere la sua signoria. Ariel pensava allora a una libertà che era volo tra le nubi, danza sui colori dell’arcobaleno, immersione nel baluginio acquoso delle albe marine, e soprattutto cavalcate a non finire sulla linea dell’orizzonte, dove nessuno può mai raggiungerti e tutti verso quella linea sono sospinti senza mai potervi approdare. Danzare su quella linea, che sia di deserto o di mare, che sia fatta d’alberi o di ghiaccio, di pietra o di nubi, danzare liberamente e vorticosamente, fino a perdersi negli elementi che fanno l’orizzonte, nell’invisibile su cui fiorisce il visibile, questo era il sogno che lo visitava e teneva in vita, là nel cieco buco di un albero.
Fu la notte di Ognissanti del 1611, dopo che per la prima volta era stato sulla scena a Whitehall, nella Banqueting Hall, che Ariel respirò il sapore della libertà. Quando finì lo spettacolo e si allontanò il suo vero signore, cioè l’autore che muoveva destini, rivolte e offese, cadute di regni e intrighi, amori e folletti, passioni e spiritelli, fu allora che in virtù della leggerezza mostrata nel danzare e cantare, Ariel ebbe il dono della sua libertà. Libertà di vivere fuori dal teatro, in quella vita che è invenzione quotidiana della vita, e coincide con il suono degli elementi naturali, con le loro forme che nascono, si disfano, rinascono come nuvole in cammino verso una striscia di terra che scompare e riappare, che c’è e non c’è.
Moltissimi, in verità, dopo quella prima incarnazione attorale, avvenuta sotto gli occhi stupiti e attentissimi dell’autore, hanno richiamato Ariel a nuove discese sulla scena : per raffigurarlo hanno fatto ricorso a fili sospesi nell’aria, a tele volanti, a macchine che soffiavano l’immagine come un batuffolo, ad alate fanciulle vestite d’organza, ad angioletti buffi e maliziosi, persino a ologrammi. Chi lo faceva azzurro e vorticoso, chi tutto di luce e ventoso, chi scattante come un ballerino o lieve come una piuma. Ma in nessuna di queste figure, dopo quella prima memorabile sera nel teatro allestito a Whitehall, Ariel si è voluto identificare. Ha solo prestato, di volta in volta, le sue sembianze, le sue parole, i suoi versi d’aria e di vento. Non poteva rientrare in nessuna opera, dopo quell’opera. In nessun libro, dopo quel libro. Poteva, da quel momento in poi, solo rivivere con i lettori, e sulle scene, quella prima incantata esperienza. Un rivivere, non un vivere. La sua vita vera si era tutta svolta in quella sera della prima rappresentazione, nel corso della festa per le nozze imminenti della figlia del re Giacomo I con l’Elettore del Palatinato.
Che fa Ariel libero, Ariel fuori scena, Ariel nell’aria? È libero come un falco in volo? Come la pioggia che scende da una nube? La sua libertà coincide con il pensiero stesso della libertà, con l’essenza della libertà? Non va a servizio, certo, di altri maghi, si guarda bene dal cadere prigioniero di una strega e lasciarsi rinchiudere ancora nella fessura di un pino. Nessun altro autore ha l’arte giusta per farlo vivere ancora sulla scena se non come parvenza di quel che fu quel primitivo Ariel.
Se ripensa a Prospero, a Miranda, a Ferdinand, a Caliban, ad Alonso, a Gonzalo, ad Antonio e agli altri, sente che tutti costoro erano solo figure dell’inquietudine umana e dell’affanno, e per questo già allora, quando era tra loro, avvertiva, nel mezzo delle proprie invenzioni e trasmutazioni, l’ala di una pietà. Compassione per il genere umano, questo il sentimento che a volte trema, ancora, nel fulgore della sua libertà.
Una sola cosa invidia agli umani : il teatro. Per questo non solo lascia volentieri che la sua ombra o parvenza dia figura ancora ai vari Ariel che vivono nelle rappresentazioni della Tempesta, ma porta la sua invisibile presenza in ogni scena di teatro. Ariel è là dove l’attore aggiunge qualcosa di inatteso al suo personaggio, è in quel tremore di vita che come vento abita qualche volta la scena e non sta in nessuna parola del testo recitato, in nessun gesto degli attori, in nessuna scenografia suggerita. Ariel è in quel brivido di vita che non si fa teatro ma che qualche volta nel teatro prende respiro e forma.
Ora può visitare i pensieri degli uomini, situarsi negli interstizi di quei pensieri, dove un accadimento sembra aver chiuso la speranza. Ariel è il desiderio che si sporge sul desiderio. Il respiro del possibile.
O tutto quel che ha fatto e pensato era solo aria, passaggio d’aria che cercava vocali per dirsi, parole per dirsi?
Antonio Prete